Ankara in Eurasia, l’Islam come ponte fra popoli

Come abbiamo già accennato, sei delle otto repubbliche centro-asiatiche condividono la fede musulmana: Azerbajdzan, Uzbekistan, Kazakhstan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tadgikistan. Sebbene – come molti hanno osservato – la dominazione sovietica ha sicuramente laicizzato le loro popolazioni, una volta caduto il muro di Berlino il fattore “R” ha conosciuto una rivitalizzazione anche grazie agli sforzi di Arabia Saudita, Iran e Turchia, impegnate a diffondere il proprio modello di Islam.
In questo contesto l’opzione turca appare come quella di maggior successo poiché, da un lato, il Wahabismo saudita sembra mal conciliarsi con culture secolarizzate ed affamate più di consumismo che di rigide ideologie e, dall’altro lato, l’Iran soffre dello scarso appeal dello sciismo in un contesto a maggioranza sunnita .
Con il beneplacito e l’esortazione di Washington, interessata a sottrarre l’area da influenze “fondamentaliste”, Ankara sfruttò il legame religioso per penetrare nella regione, attraverso la propria Direzione generale per gli affari religiosi, il Diyanet. Agenzia governativa quest’ultima che sviluppa il concetto di “spazio islamico eurasiatico”, dove la Turchia viene immaginata come fulcro di un sistema d’integrazione cultural-religioso che si regge su di una galassia di strutture a matrice religiosa.

Il ruolo di pionieri spettò alle varie confraternite sufi che, anche per sottrarsi alle pressioni in patria, trovarono terreno fertile per le proprie fondazioni, imprese, ma soprattutto scuole private, e diedero il via ad una discreta ma incisiva opera di islamizzazione . Fra queste la confraternita più attiva sembra essere stata quella dei “partigiani della luce” fondata da B. Nursi, oggi guidata dal maestro/imprenditore Fethullah Gulen: da sempre improntata ad un’islamizzazione tramite l’educazione, questa confraternita è riuscita a creare un gran numero di attività in questa regione, sia economiche che culturali, tra le quali meritano di essere citate: il quotidiano Zaman, pubblicato nelle diverse lingue locali e le holding finanziarie Asya Finas e Isik Sigorta, note alle cronache per operazioni di riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico . La questione della droga, così distante dagli ideali filantropici del movimento religioso, trova una sua collocazione se arricchiamo il contesto di un fattore ulteriore: l’estremismo di destra turco, contiguo al mondo mafioso ed eversivo.
L’ambiente parafascista turco, infatti, è l’unico ad aver sempre sostenuto in patria un’ideologia panturchista, di sintesi turco-islamica dove il turco è rappresentato come campione-tipo dell’Islam ; in una congiuntura internazionale favorevole, il panturchismo ha rappresentato il trait d’union per quei gruppi religiosi/politici/criminali osteggiati in patria ma mai sopiti. Ankara risponse a questa deriva che, oltre a danneggiarla sul piano diplomatico, generò forti tensioni socio-politiche interne, attraverso la creazione di un Consiglio dell’Islam eurasiatico (Ais), antenna del Diyanet, costituito con altri 28 paesi riunitisi ad Ankara nel 1995, con lo scopo di costituire un’Organizzazione della conferenza islamica eurasiatica . L’Ais divenne, quindi, lo strumento accentratore delle politiche religiose turche che le organizzazioni extra-governative avevano intrapreso anche con il favore delle istituzioni; a queste l’establishment turco (soprattutto lo Stato Maggiore ed i partiti di sinistra) rispose anche con una campagna per “risvegliare le coscienze collettive” .
Nel 1996, sessantesimo anniversario della scomparsa di Ataturk, partendo dalla denuncia di infiltrazioni islamiste all’interno del ministero dell’educazione, si pose l’accento sul grave pericolo rappresentato dal connubio fra razzismo nazionalista turco e fondamentalismo religioso, che ebbe come bersaglio principalmente Fethullah Gulen; per alcuni, un ulteriore obiettivo sarebbe sembrato anche l’Arabia Saudita, impegnata con gli Usa a fomentare gruppi islamisti/mafiosi, secondo fonti dei servizi segreti turchi . La politica religiosa ufficiale soffrì, però, di poco dinamismo, limitando il suo campo d’azione alla traduzione in turco/lingua nazionale dei testi classici dell’Islam, alla costruzione/riparazione di moschee e sopratutto alla formazione del personale religioso regionale, attraverso l’istituzione di facoltà di teologia in loco od accogliendo studenti in patria. Vennero istituite facoltà presso Ashkabad (Turkmenistan), dove ha sede anche un liceo religioso, Och (Kirghizstan) e Chimkent (Kazakhstan), dove lavorano teologi qualificati turchi; queste strutture hanno attirato l’interesse delle popolazioni locali, sia perché praticamente gratuite, sia perché offrono corsi non incentrati soltantosulla religione ma anche di carattere internazionalista .
La religione non è che uno – e forse il più marginale – degli strumenti utilizzati dalla Turchia per “costruire ponti” nel suo “Oriente vicino”; gli sforzi maggiori sono stati spesi in ambito culturale, con particolare riferimento alla lingua.
La regione euroasiatica, conosciuta come Turkestan o Turan prima della colonizzazione sovietica, aveva destato l’interesse di alcuni circoli intellettuali ottomani nel XIX secolo, quando la scienza europea individua una comunità linguistica autonoma del ceppo uralo-altaico in concomitanza con l’affermarsi dalle ideologie panslave e pangermaniche. Anche presso la Sublime Porta, imitando lo zeitgeist europeo, si sviluppa una visione geopolitica basata sull’etnicità detta panturchismo , utilizzata soprattutto in chiave antizarista; questa dottrina uscirà politicamente sconfitta dalla Grande Guerra, visto che Ataturk, nella sua visione post-ottomana, cercò di intrattenere relazioni distese con l’URSS ritirando ogni pretesa turca dall’Asia centrale . Alcuni hanno fatto notare, però, che il panturchismo non venne a scomparire del tutto: bandito in politica è sempre stato coltivato all’interno del sistema educativo turco . Con la costruzione dello Stato, si elaborò all’interno della storiografia kemalista, e quindi dei manuali scolastici, un mito civilizzatore della razza turca che, partendo dai monti Altaj, illumina il mondo. Non c’è, quindi, da stupirsi se, per un verso, quando nel 1991 Ankara riallacciò le relazioni diplomatiche con l’area, i suoi media si lanciarono in trionfalismi quali il “XXI secolo sarà dei turchi” o la rinascita di un “mondo turco”  e se, per altro verso, il presidente Turgut Ozal, durante un discorso all’assemblea nazionale, si presentò come portavoce dei “200 milioni di connazionali […] con cui è necessario costruire una comunità di stati dall’Adriatico alla Grande Muraglia” . Il sogno di Ozal sembra potersi riassumere in un progetto federativo su modello europeo, con la Turchia al centro e il fattore turcofono a dare linfa vitale a tale comunità.

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